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Un giorno in pretura e la scomparsa della società dei filtri

Grazie a Rai Play sto riscoprendo un grande classico della TV italiana.
Pubblicato il 5 Gennaio 2023

Ultimamente grazie a Rai Play sto riscoprendo un grande classico della TV italiana: Un giorno in pretura.

A essere sinceri, sto facendo binge watching di tutte le puntate dalla stagione 2010 manco fosse Game of Thrones.

Al di là di soddisfare la mia crescente passione per la cronaca giudiziaria e il noir, sto rilevando con interesse in questo programma simbolo di una TV generalista che non c’è più una serie di particolari che mi hanno fatto riflettere.

Nonostante sia datato, questo prodotto tutto italiano condotto da Roberta Petrelluzzi è tornato di moda negli ultimi anni grazie alla cultura pop sviluppata dal basso in particolare sui social, come egregiamente raccontato in un recente articolo di Ray Banhoff pubblicato su Rolling Stone: una celebrazione pittoresca dei fenomeni più pittoreschi passati fra i banchi delle diverse aule di tribunale italiane (le deposizioni di Alongi e Biggioggero sono solo alcuni degli esempi più noti).

Ho guardato un po’ di puntate in questi giorni di vita casalinga invece che cominciare l’ennesima serie TV mainstream di fiction, perché se è vero quant’è vero che i social network stanno avviandosi verso la definitiva mutazione (modestamente ne sto parlando da un po’) allora di fronte abbiamo una trasformazione di paradigma che riguarderà non solo il modo che abbiamo di raccontarci, ma anche di osservare il reale.

Un giorno in pretura è in questo senso un esempio interessante che può dirci molto: sono le cose che dicevo di aver notato in apertura di post, che ora vi condivido.

Cosa racconta la struttura di Un giorno in pretura

Gli ultimi dieci anni li abbiamo passati a mettere filtri. Nei selfie, sui reel e le stories, anche sulle bacheche da cui abbiamo attinto i contenuti con cui abbiamo occupato il nostro tempo libero. L’applicazione di filtri è diventata una specie di modalità operativa con cui abbiamo famigliarizzato per molte attività diverse.

Tutto ciò che è digitale ha cominciato a essere assoggettabile a filtri che ne plasmassero la dimensionalità, basandoci sempre più su sistemi di filtraggio per determinare il cosa ci interessasse, il cosa vedere, il cosa ascoltare, e anche come volessimo apparire.

Viviamo nella Società dei Filtri, prima che venivano applicati da noi su dashboard personalizzate, oggi che grazie a un’automazione prepotente stanno facendo emergere nuovi social network.

A forza di filtrare le cose, però, l’umanità sta perdendo di vista la realtà. L’esempio perfetto sono le Filter Bubble, la punta di una piramide enorme il cui effetto più evidente sono i fenomeni di manipolazione collettiva come QAnon: enormi narrazioni di massa che mescolano gamification e strutture narrative complesse, filtri inconsapevolmente applicati a monte grazie alla capillarità del digitale.

In un’epoca dove il filtrare è azione obbligata per trovare intrigante qualsiasi cosa rispecchi un tratto narrativo, ci sono isole di senso che rimangono sempre uguali a sé stesse: e Un giorno in pretura è parte di questo arcipelago.

Rendendo con un tone of voice asciutto le vicende giudiziarie più intricate una sorta di show, Un giorno in pretura è esercizio stilisticamente minimale che permette di applicare in maniera molto snella la struttura in tre atti: c’è un reato, c’è il processo, l’attribuzione di responsabilità e infine la sanzione, ossia la sentenza del giudice.


Non c’è una ricerca troppo approfondita nel racconto di questa sequenza narrativa: c’è la trasposizione delle immagini delle deposizioni dei testimoni e degli imputati, le requisitorie del pubblico ministero e le domande del giudice, le obiezioni degli avvocati difensori e i pareri dei consulenti legali di parte.


Viene applicato un montaggio, certo, che porta qualche lieve intromissione di scene e immagini di repertorio che inframezzino i filmati in presa diretta dall’aula e che permette di snellire le ore e ore di dibattimento. Parliamo però più di fegatelli magari accompagnati da brevissimi tappetini sonori: più una laccatura di contorno che un vero arricchimento di senso.

A conti fatti, però, al netto di questi inserti, Un giorno in pretura sta tutto lì: nelle parole e nei volti di un’umanità variegata, talvolta disperata, che lascia parlare i fatti.

Andrea Pizzocolo
Andrea Pizzocolo, omicida di una escort nel 2019 e protagonista di un processo raccontato da Un giorno in pretura

Le storie raccontante spesso ritraggono un mondo degradato, ricco di solitudine e violento, tanto da sembrare finte. Semplici fatti di cronaca come l’omicidio di Gloria Pompili, il cui processo scoperchia uno scenario dove i peggiori luoghi comuni si mescolano a proiezioni solo apparentemente fittizie tanto sembrano essere ingiuste e lontane dalla normalità. Eppure, è il racconto asciutto e basato sull’oralità del rito processuale a garantire l’efficacia dello stesso.

Ora: abbiamo osservato negli ultimi anni un vertiginoso aumento del consumo di podcast con ascolti che si attende per il 2024 arriveranno in tutto il globo a 504 milioni. È un ritorno all’oralità che durante il lockdown aveva preso la forma di un social network e che non possiamo considerare solo una moda: semmai, uno dei tanti aspetti che stanno segnando il frettoloso dietrofront a una dimensione meno artificiale del comunicare, basando la costruzione del messaggio su pilastri umani, autentici, non filtrabili.

Le “stanze” di Clubhouse, così come gli Space di Twitter o le dirette di Twitch, sono traduzioni diverse dello stesso principio, quello del racconto esposto senza intromissioni ne artifici che ne minino l’autenticità.

Attenzione: impiegare questo termine, “autenticità”, senza che vi siano reali appigli rischia solo di snaturarlo, arricchendo il fronte della battaglia ai neologismi svuotasenso su cui tanto ci sarebbe da dire (e la cui vittima più illustre oggi è il termine “narrativa”). Qui però è doveroso impiegarlo.

Autentico è ciò che non può essere mutato senza contaminarne il senso, è reale, “vero”: il racconto orale è forse l’espressione più genuina della gestualità del narrare, perché frutto in purezza del talento dell’uomo a esprimere in strutture innate ciò che ha vissuto, ha osservato, ha capito.

Il processo, nella forma dibattimentale propria dello stato di diritto, con il confronto fra Pubblico Ministero e avvocato della Difesa, sommando gli interventi della Parte Civile, degli imputati e delle parti lese, fino ad arrivare all’arbitraggio del giudice, è in questo uno dei contesti dove tutto il senso viene affidato (anche inconsapevolmente) alla capacità degli attori in causa di raccontare.

Un giorno in pretura è quindi solo in apparenza un programma “semplice”. Nasconde al contrario il suo essere sofisticato esercizio drammaturgico, pur contando su pochissimi ingredienti a realizzarne la formula: parlo principalmente del montaggio degli interventi, che screma la lungaggine del dibattimento e dà ritmo a una lunga esposizione che diventa efficace grazie all’immaginazione di chi ascolta.

Il suo format fa da contraltare all’esercizio della fiction giornalistica, quella teorizzata per esempio da Michele Santoro nel post Annozero per raccontare fatti di cronaca e in cui attori professionisti impersonavano personaggi reali, recitando sulla base di deposizioni ufficiali.

Quest’ultimo format ancor oggi resiste in altri programmi di successo come Amore Criminale, che pur mantenendo una vocazione giornalistica inserisce un filtro interpretativo evidente che rende il tutto più patinato.

Un giorno in pretura, viceversa, sembra poter essere la versione di un racconto con un narratore onniscente ma senza identità ne rilevanza: un osservatore silenzioso che non prende posizione ma si limita solo ad ascoltare.

Per essere un residuo della TV novecentesca, c’è da dire che guardarlo con gli occhi di oggi stupisce.

Credo che riscoprire questo tipo di offerta, peraltro prodotto di un linguaggio (quello televisivo) che viene dato per spacciato da anni ma che zitto zitto rimane sempre lì, possa essere d’aiuto per cercare di interpretare un futuro sempre più fosco.

Fra social network che diventano solo media con visibilità a pagamento, contenuti che si espandono ed esperienze sempre più invasive, il silenzioso raccontare di un’aula di tribunale può esser interessante da (ri)scoprire e analizzare oggi.

Si sa che a volte le trasformazioni sono solo dei ritorni dal passato.

Che sia questo il caso?


Lo sai che oggi faccio anche il Consulente di #BrandRegenerationContattami per parlarne 🙂

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