Come tutte le storie, ci sono tre atti. I primi due, che ho già avuto modo di raccontarvi, sono rivolti a due mondi diversi: un concetto di esplorazione e una nuova parola chiave.
Il terzo, questo, l’ultimo in cui tutto si chiarisce, è dedicato alle storie. Non necessariamente le nostre, ma anche quelle che vogliamo raccontare.
Riguarda anche la mia professione, ma… mettetevi comodi, perché vale la pena raccontare tutto dall’inizio.
Prima delle storie, l’antefatto
Tutto comincia la scorsa primavera, e coincide con un rifiuto, uno dei tanti che si possono ricevere. Riguardava la voglia di scrivere una storia di sport.
Il rifiuto? È di un mio conoscente. Gli chiedo un parere sullo scriverla, questa storia, e lui non mi dice ne sì, ne no. Mi ignora, e bon. Ci ero arrivato perché, un po’ per caso (non sarà la prima volta che apparirà) ero incappato nella notizia che fosse in uscita un suo lavoro.
La cosa mi colpisce.
Caspita, che figo. Dev’essere bello scrivere una roba così.
Allora comincia la mia esplorazione narrativa di cui ho fatto cenno nel primo atto: lo contatto per chiedergli come ha fatto.
Però lui non fa niente. Non mi dice niente. Mi lascia appeso lì.
L’indifferenza è una roba che profuma di rifiuto, perché è proprio tutto il contrario che si farebbe per una persona. Ignorarla significa far finta che non esista, non so se riesco a restituire la sensazione.
Io però, che ho cominciato quell’esplorazione narrativa di cui sopra, mi dico che questa volta non mi basta. Mi era capitato tante volte di sentirmi inadeguato quando andavo a Scuola, a volte per colpa di boria altrui peraltro (ho scoperto negli anni) non sempre avvallata dai fatti.
Quel senso era sparito per un po’, poi però era tornato, anche negli ultimi anni.
Era dal 2013 che non scrivevo una storia. In una di quelle ultime volte che l’ho fatto, in occasione di un reading che si tenne il 21 marzo 2013, ne uscì fuori un racconto che mi portò addirittura in TV. L’ultimissima volta fu invece per un concerto, anche quello un unicum.
Poi, il nulla.
Vuoi o non vuoi, ho smesso. Perché, non so dirlo. Semplicemente, non mi sono più sentito pronto.
Poi, appunto, nel 2020, quel rifiuto.
Questa volta, mi son detto, non mi arrendo.
Mi era tornata la voglia di raccontare una storia, e questa volta mi ero fissato con la narrazione sportiva.
Volevo celebrare, allo scopo di ringraziarlo per tutto ciò che mi ha dato, il mio sportivo del cuore: Alessandro Del Piero.
Potrei provare, mi son detto.
Chiedere un parere a quel mio conoscente mi sembrava una cosa furba: un consiglio da chi ce la fa è sempre prezioso. Il fatto è che non arrivai neanche a chiedergli quel parere: semplicemente, mi ignorò.
Ci rimasi male, molto. Un giorno intero.
Poi però ci pensai, e mi resi conto che non bastava quel no a fermarmi. Quella storia, pur nota a tutti volevo raccontarla io e dal mio punto di vista. Volevo provarci.
Sentii un bisogno che non sentivo da anni. Da quel 2013.
Eccola, l’esplorazione narrativa: fine primo atto.
Secondo atto: che faccio?, mi dico. Mi rispondo scrivo un plot, un capitolo pilota e vediamo che succede. Mi metto a lavorarci su, perché ho fretta, oh sì, ho veramente il bisogno di farlo, perché ho il terrore che qualcuno lo faccia prima di me.
Mi metto sotto, e comincio. Uno, due weekend estivi post lockdown a macinare ore e ore di girato su Del Piero. Mi leggo quante più cose possibili. Ed ecco che salta fuori il plot, lo scalettone e appunto, il primo capitolo.
La storia vorrebbe che l’editore che sceglie di puntare su questa storia sia quello che ha pubblicato il mio conoscente che mi ha ignorato.
Però questa storia è governata dal caso, e oltre a quell’editore scelgo di mandare il materiale a tre editori, insieme.
Come faccio? Non so a chi chiedere.
Mi metto a cercare su Google. La cosa più casuale del mondo.
Ne trovo altri due. E mando il materiale a tutti e tre.
Beh, l’editore di quel mio conoscente, in continuità con il medesimo, mi ignora.
Il secondo mi risponde cordialmente che ha altri titoli per il 2021.
Il terzo invece mi scrive, e mi dice: “Mi piace”. Ci sono arrivato così, per caso.
Fine secondo atto.
Le mie storie, il mio 2021
Scrivo questo post ascoltando Radio3, un po’ alla penombra della sera tarda. Sembra quando scrivevo la tesi ascoltando Fahrenheit e leggendo, scrivendo, studiando, sognando.
Mi sento tornato per certi versi ad allora, e anche questa volta parlo di un progetto che ha avuto una gestazione di quasi un anno e si è rivelato un bel banco di prova.
Per certi versi, Sarò sempre al tuo fianco è una tesi di laurea, o almeno: per me ha la stessa valenza.
Il perché è semplice.
Ho passato gli ultimi anni a parlare di storie senza riuscire realmente a lavorare a una roba tutta mia. Sì certo, ci sono le cose del lavoro: ma io parlo di altro.
Parlo di storie vere, mie, cose che partono dall’anima. Quelle che sono sfide prima di tutto con te stesso.
Io non so se questo libro possa essere considerato “un buon libro”.
So però che è mio. So che ciò messo tutto ciò che avevo per scriverlo. So che è una roba che avevo bisogno di raccontare. È ciò che immaginavo sarebbe nato da un lavoro di “storyteller” vero, che poi è quello che racconta le storie, non che le spiega (il grande corto circuito di un certo modo di parlare di Storytelling).
Per questo vedo questo lavoro come una sorta di banco di prova per me, che alle soglie dei quarant’anni ho scollinato finalmente quel traguardo tutto soggettivo del vedere il mio nome stampigliato su una copertina da solo.
E aprendola, quella copertina, ci si trova non una spiegazione, ma una serie di esperienze che compongono una storia, dove è riconoscibile un inizio, un conflitto e una fine. Tre atti, et voilà.
Probabilmente non cambierà nulla nel mondo della letteratura il mio modesto lavoro.
Però mi dimostra, ancora una volta, quanto la scelta di puntare sulle storie sia una scelta vincente. Di quanto sia prezioso il gesto del raccontare, e quanto sia sacro ciò che esce dal cuore di chi si presta a metterlo in pratica.
Questo libro mi incoraggia a continuare a vivere secondo la mia frase guida: “Non succede nulla, se prima non lo immagini“. Con due aggiunte: non aver paura di uscire dai confini e lasciarsi guidare nell’esplorazione dal caso.
Speriamo che sia veramente beneaugurante.
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