Quindi, siamo arrivati al weekend di uscita dei due film più attesi dell’anno: Barbie e Oppenheimer. Uno scontro fra titani che su Twitter ha ovviamente trovato una sua dimensione anche terminologica, con una crasi che a livello simbolico ci aiuta a entrare in alcuni meccanismi inconsci di come le storie ci pervadano e ci indirizzino: il Barbenheimer.
Personalmente credo che andrò a vedere solo il secondo, se non altro perché la bomba atomica è stata oggetto d’analisi oltre che della mia tesi di laurea anche di possente studio negli anni della mia giovinezza. Ciò non toglie che Barbie sia a tutti gli effetti un altro fenomeno di massa da studiare, capire, e comprendere. Su queste pagine però si parla molto di Storytelling e narrazioni, e non posso esimermi dal fermarmi a riflettere, tenendo conto che tutto rientra in quella lente e inesorabile corrente che ho provato a percorrere -almeno per un pezzo- nel mio ultimo libro.
Il Barbenheimer oltre al costume e alla realtà
La prima cosa che mi preme sottolineare è l’esigenza che ha portato a produrre queste due storie. Da un lato, la bambola più iconica della modernità, nata adulta e passata dal rappresentare principi di perfezione inalienabile e irraggiungibile al (tentare di) incarnare con il nuovo millennio il modo di essere della ragazza moderna: meno ideale, più conscia anche delle proprie legittime imperfezioni, e per questo più felice di essere sé stessa.
Possiamo leggere così il bisogno della Mattel di tramutare Barbie in un franchise transmediale e cosmopolita, dove i linguaggi dell’inclusione si mescolano al revisionismo storico delle sue origini plastificate e irrealistiche: l’unica via per dare un seguito a una bambola che nel mondo di oggi poteva fare sempre più fatica a trovare il proprio posto nel mondo (e negli scaffali dei negozi).
Dall’altro, l’ultimo esercizio di stile di un regista iconico e virtuoso in tematiche storicamente ostiche come il tempo, la realtà, le caducità della vita, che prende in esame le gesta di uno degli scienziati più importanti e decisivi nella storia dell’umanità. Una storia vera, sofferta, con al centro una tecnologia di distruzione di massa terrificante.
Pur essendo paradossale il crossover di queste due narrazioni, avvicinarle e fonderle in un confronto che genera a sua volte immagini ibride e no-sense è frutto di un contesto come quello attuale, dove l’abbondanza di storie ha condotto a una bulimia da narrazioni che sta lentamente erodendo la capacità di comprensione dell’esistente e il senso delle cose fa fatica ad affermarsi.
Il Barbenheimer è stato uno sbocco naturale nei sistemi di co-creazione dei fan, che hanno approfittato dalla naturale vocazione al confronto e allo sviluppo di appendici narrative per generare un confronto/conflitto che ha portato anche a diffondere contenuti dove il rosa del fatato mondo Mattel si mescola al rosso incandescente della polvere da decadimento radioattivo.
Un effetto, non c’è che dire, che si potrebbe ritrovare in un film distopico di fantascienza degli anni ’80.
Quel linguaggio però è il nostro, ormai, ed è il frutto di tante narrazioni che si sono affastellate nella nostra quotidianità.
Era il 1959 quando la Barbie veniva messa sul mercato: dieci anni prima, l’URSS testava la sua prima bomba atomica, sette gli US facevano detonare la prima bomba H della storia alzando il livello di distruzione a una dimensione globale. L’umanità si immergeva in contemporanea in mondi tanto diversi quanto stranianti, e cominciava a lasciarsi contaminare dalle proiezioni che questi racconti portavano con sé.
Entrambe le cose, per quanto distantissime, sono parte di un secolo (quello Breve, va da sé) che ha trovato nell’assuefarsi al consumo e al principio di Distruzione Mutua Assicurata (o MAD) due architravi concettuali, come parte di un medesimo modo di concepire l’esistente.
Barbie ha incarnato per sessant’anni l’ideale di bellezza armonica e ideale, traguardo precluso al 99,9% delle bambine che attraverso il gioco sviluppavano le proprie aspirazioni, così come Oppenheimer è diventato suo malgrado uno dei volti di una scienza incapace di frenarsi di fronte al limite del lecito e non in grado di controllare il proprio tardivo pentimento.
Sono due volti di un secolo che ha abituato le persone a ballare sul ponte di una nave alla deriva, dove il senso di potere era dato dall’avere a disposizione un’arma in grado di annichilire qualsiasi specie vivente sul pianeta e, paradossalmente, costruire gli equilibri per sopravvivere in virtù di questa ingombrante presenza.
Mentre in una mano l’uomo teneva un detonatore che avrebbe posto fine a tutte le cose, con l’altra modellava il concetto di bellezza a favore di generazioni di giovani donne imperfette, dando forme concrete a un qualcosa che non poteva essere tangibile per natura.
Giocattoli e benessere, rifugi pubblici e confronti fra blocchi ideologici, tutto insieme, senza che ci fosse un modo per regolare il modo che avevamo di capire l’esistente e di trasferirlo in racconti efficaci.
Dalla realtà al cinema
Ritrovare sul grande schermo due storie così lontane genera un scontro che a livello narrativo ci dice molto sul bisogno che le persone oggi hanno di esorcizzare il ‘900, rimettendo in discussione i paradigmi che hanno contribuito a edificare certi valori e riscoprendo storie che credevamo ormai inutili da ripercorrere.
Chi nel 1997 aveva paura della bomba atomica? I Millenials hanno imparato a disconoscere quel timore in favore di un più giocoso senso di libertà globalizzante e cosmopolita. E quanti guardavano alla Barbie con lo stesso, ammirato sguardo frutto di una fascinazione incontrollata?
La BBC, parlando del Barbenheimer, scrive: “L’ironia del Barbenheimer è che Barbie e Ken soffrono tanta angoscia esistenziale nel loro film quanto Robert Oppenheimer nel proprio.”. L’Occidente che ha abolito l’empatia dalla vita delle persone trova poetico il confrontare la personificazione di una bambola con il “distruttore di mondi“, che viene riportato sullo schermo da Nolan allo scopo di dare nuovo vigore a una storia che viene considerata ormai scontata e lontana come una specie di racconto sci-fi.
“Nessuno si preoccupa più delle armi nucleari. Le persone saranno interessate a questo?” chiede proprio il figlio di Nolan al padre, quando il regista raccontò di voler raccontare la storia di Robert Oppenheimer. Un senso di distacco che ci certifica anche quanto il decennio della distopia, in cui zombie e pestilenze hanno fatto a pugni nei palinsesti e nelle produzioni, abbia annichilito il senso critico verso la realtà, favorendo un irresponsabile quanto inconcepibile bisogno di racconti che non spieghino la realtà, quanto la rendano accattivante.
Le armi nucleari sono diventate mezzi di comunicazione, fantasmi impossibili da impiegare E QUINDI non in grado di farci paura. Siamo sicuri che non possano farci niente perché sappiamo cosa potrebbero farci, quindi diventa comune raccontarle come un qualcosa di etereo, lasciando spazio all’equiparazione del senso di smarrimento che prova il suo creatore e un personaggio di fantasia.
Irreale? Incoerente? Illogico? Non importa.
Sono le storie che guidano e oggi le persone hanno bisogno di racconti dove al centro ci sia l’individuo che guarda dentro di sé.
L’Oppenheimer di Nolan ancora non è considerato un’opportunità per riscoprire come sia stato creato il più impellente e terribile dispositivo di distruzione di massa che l’uomo abbia ideato e la vicenda interiore dello scienziato che se ne intestò la paternità: semmai, ci si ferma al suo essere un Joseph Merrick che attrae solo repulsione e meraviglia senza umana comprensione, un mostro da baraccone che non viene capito fino in fondo ma osservato come si osserverebbe un oggetto di finzione… come una bambola.
Le persone avrebbero bisogno di calarsi di più in narrazioni in grado di fermare la corsa del lecito e del distraente, proprio perché tutto diventa spettacolo, tutto diventa comparabile, tutto diventa parte di una mistura promiscua e in cui il senso si perde.
Però non è questo forse il momento, a maggior ragione in un periodo dove dopo la pandemia l’eco della guerra, del riscaldamento globale, delle migrazioni di massa stanno sempre più facendo capolino nelle possibili incontrollate evoluzioni del pianeta.
Servono storie che ci facciano ancora guardare dentro e ci facciano sentire forti, rispecchiandoci nelle debolezze di altri.
Ecco allora che Barbie e Oppenheimer diventano la stessa cosa, equiparabili, da guardare in coppia e da confrontare come se parlassero della stessa cosa.
Ciò di cui crediamo di aver bisogno e che crediamo di capire, ma che ci allontanano solo da un reale, corretto e sano consumo di narrazioni.
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