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Un'estate passata a lavorare su un nuovo progetto, completamente mio. Una serie di pensieri, nati dall'autoanalisi e dalla presa di coscienza.
Pubblicato il 27 Agosto 2020

A inizio aprile l’amica Alice Avallone mi ha chiesto di partecipare al progetto Back To The Future, con un mio contributo che potesse raccontare il dopo lockdown. Ho pensato di partecipare con un testo dal titolo Un gradito ritorno alla lentezza, che mi sembrava un giusto mix fra un auspicio benaugurante per tutti e un buon proposito anche per me.

‘Sto concetto della lentezza però mi è rimasto dentro, da quei giorni.

Forse mi sarò lasciato trascinare dall’idea che sul serio il mondo aveva capito che bisognasse rallentare, o forse mi sono semplicemente illuso che ero veramente riuscito a scalare la marcia, ma in un senso buono, come a percorrere la stessa quantità di kilometri di prima, solo con più cura, meno frenesia, senza l’ansia che ti aggancia e ti obbliga ad andare più in fretta, sempre più in fretta.

Ho letto un articolo interessantissimo al proposito su Internazionale di Mark Taylor (non dai termini proprio entusiastici, diciamo), di come sia cambiato il valore che abbiamo dato all’accelerare le cose, un aspetto che da facilitatore è diventato zavorra. Mi ci sono ritrovato parecchio.

Il fatto è che da aprile mi sono reso conto che cambiando il rapporto con il tempo, cambia anche il rapporto con il nostro modo di essere, e conseguentemente il modo con cui leggiamo le cose che facciamo.

Penso a questo blog. A giugno ho cominciato a progettare un restyling del mio sito. Ci stiamo lavorando da un po’, con tanti annessi e connessi che stanno procrastinando la pubblicazione della nuova release di francescogavatorta.com: nel mentre, per evitare complicazioni ulteriori fra import che non funzionavano e problemi di aggiornamenti a WordPress, ho pensato di non toccare la piattaforma e non scrivere più.

Tutto questo non mi ha impedito di avere quasi l’ansia che quei pochi che mi avrebbero potuto cercare non trovassero cose nuove su di me. Ed è un’ansia stupida, forse anche esagerata, ma non solo perché non è questo il metro per valutare ciò che sono o ciò che faccio (o almeno, non solo), ma perché è estate, e ci sta che tutto possa prendere una piega più riflessiva, più lenta, e non c’è niente di male in fondo, perché non so per voi, ma per me questo è stato un anno faticosissimo, ed è normale che arrivato alla fine le cose possano essere perlomeno più quiete.

No, che non è normale. Tutto viene misurato sul criterio della velocità, ma proprio a livello convenzionale: è universalmente riconosciuto che ciò che è “veloce” allora sarà erogato nella forma giusta, o comunque secondo uno standard che ormai è considerato igienico.

Guardavo ad esempio i servizi relativi alla querelle Mirko Scarcella-Le Iene: posto che io questo signore prima non lo conoscevo, ciò che ho capito rispetto al suo lavoro era che la sua value proposition era (è?) garantire una crescita esponenziale di followers su Instagram in brevissimo tempo. E pare che la gente gli credesse, anzi: i media mainstream lo considerassero per questo un guru. Ancora velocità, anche a costo di andare contro il buonsenso.

Andiamo avanti.

Dicevo del concetto della lentezza, di cui comunque in questi mesi ho parlato spesso (ad esempio qui e qui) che mi è rimasto addosso.

Come potevo declinarla, questa roba della lentezza? Come potevo farla mia?

La soluzione è stata una: potermi dedicare a un progetto “lento”. Fare qualcosa che mi desse la sensazione di cristallizzare il tempo, facendolo percepire come un qualcosa di mio, integralmente a mia disposizione. Qualcosa che seguisse il cambio di mood che ad esempio si può sentire nelle playlist di Alessio Bertallot quando arriva l’estate.

Ascolta “Spleen, misteri, meraviglie e romanticismi di una notte estiva” su Spreaker.

Ho cominciato a pensarci, e mi sono reso conto di non averlo fatto per un sacco di tempo, questo cambio di approccio.

Forse perché non ci ho mai creduto abbastanza, o forse perché era veramente il caso di provarci e basta, prendendoselo il tempo, beh… sta di fatto che quest’anno ci ho provato e ci sono riuscito.

Quest’estate ho lavorato a una roba che mi ha dato la sensazione di aver veramente rallentato le cose. Una roba che forse potrebbe essere anche una specie di autogoal per la mia sfera professionale, anche se no, non credo, dato che comunque c’entrano le storie.

È stato bellissimo lavorare a un progetto integralmente mio, metterci tutto me stesso, staccandomi dalle logiche secondo cui c’era un anno da progettare, altre partnership da cercare, altri corsi da progettare, altre pubblicazioni da scrivere: e pazienza se, in fondo, è anche lontano da ciò che faccio per lavoro.

È stato un modo per fermare la macchina, investendo il tempo finalmente secondo la vera e unica logica con cui ci si può rapportare ad esso: ossia che è un qualcosa di irreversibile, irripetibile, e soprattutto finito.

Per la prima volta da tanti anni ho messo davanti la necessità di guardare al tempo come una risorsa finita.

Ho rimandato tante volte la scelta di fermarmi e provare a concentrarmi su un’attività che non fosse direttamente correlata a una mia crescita professionale: perché in quel momento mi piaceva la sfida, perché sentivo di doverlo fare, perché avevo voglia di affermarmi, e perché non ho mai fatto caso, intanto, che il tempo passava.

Quest’anno no. Forse ho lasciato sul campo vantaggio competitivo, chissà.

Magari perderò delle occasioni, anzi sicuramente. Però sapere di essermi riuscito a fermare, guardarmi dentro, e trovare risorse diverse rallentando tutto, riassaporando la capacità di staccare dagli imput esterni e dilatare il tempo come se fosse un oggetto di materia plastica da manipolare secondo le tue necessità.

Chiamatelo detox, o anche invecchiare, o come pensate sia giusto definire quando una persona sente che è meglio togliere il piede dal pedale e guardare il paesaggio che da un’indefinita serie di strisce colorate si definisce in forme, colori, movimenti.

Quando ti guardi intorno e vedi che ricominci ad apprezzare i negozi chiusi alla domenica, la possibilità di fare pranzo a casa ogni tanto durante la settimana, la bellezza di scegliere di non rispondere a un’email mentre sei in ferie.

Non è non aver voglia di fare: semplicemente, voglia di fare meglio, con più calma, senza che ci sia la sensazione che qualcosa debba subito seguire quell’azione che stai compiendo, senza lasciarti lo spazio di osservarne gli effetti.

Ma soprattutto, provare a ricavarsi quel minimo spazio per riuscire a mettere in piedi qualcosa veramente di tuo.

Vi siete mai sentiti, così?

Nel caso provateci. Potrebbe essere una di quelle cose che vi faranno pensare che quelli che durante il lockdown dicevano “ne usciremo migliori” in qualcosa (poco) ci hanno azzeccato.

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