Credo che per parlare di gavetta, lavoro gratis e in generale “voglia di faticare” si debba aver vissuto un periodo in particolare, ossia il primo decennio del nuovo millennio.
Per chi ha fatto “gavetta” in quel periodo infatti, il tema era strettamente legato a una norma promulgata il giorno di San Valentino del 2003, la cosiddetta Legge 30, nota come Legge Biagi.
Faccio solitamente molta attenzione a indicarla con il nome del giuslavorista che la propose, dato che il risultato del lavoro del parlamento di allora fu abbastanza diverso dalle idee che Marco Biagi aveva in mente, e solo per comodità cito il suo nome: per capire bene di che riforma parliamo.
Ecco: chi in quegli anni si avvicinava al mercato del lavoro si prese un treno in faccia di proporzioni bibliche, e la locomotiva fu proprio quella legge.
E a nulla valgono le fandonie di chi racconta che quella riforma fu efficace: sono balle. Quella riforma ha solo lasciato alle spalle una generazione che fu denominata 1000 euro, come il titolo di un libro che è diventato un film. Sdoganò contratti impossibili e rese di fatto un miraggio la possibilità di arrivare a retribuzioni dignitose in tempi ragionevoli.
Non sono qui per parlare di scelte politiche, però, ma di riflettere sul concetto di gavetta.
Lavorare gratis è gavetta?
Da qui bisognerebbe partire per capire le polemiche di oggi. Da questa semplice domanda.
Cosa significa lavorare gratis? E perché si lavora gratis?
Qui entra in gioco l’esperienza personale.
Io ho cominciato a lavorare gratis: o meglio, quando sono entrato nel mondo del lavoro, con la mia bella laurea, sapevo che avrei lavorato gratis sicuramente. Mettevo in conto che avrei lavorato gratis nella migliore delle ipotesi fra i sei mesi e un anno.
La gavetta, intesa come percorso di formazione “sul campo”, nel 2005 quando discuto la mia tesi di laurea era quella roba lì.
Il perché è abbastanza intuibile: la legge di allora permetteva a chi gestiva un’azienda di offrire contratti di formazione sul lavoro (stage o simili) totalmente gratuiti e non retribuiti senza alcun limite.
Era quindi normale per un’azienda far girare in ufficio due/tre stagisti che di fatto lavoravano completamente e in maniera totalmente assimilabile ai propri colleghi “senior”, e dopo un certo periodo (tre, sei mesi) semplicemente sostituirli. Conosco miei compagni di corso che questo giretto lo hanno fatto per un due/tre volte, prima di trovare un contratto retribuito.
Io stesso ci sono passato.
Stava a te decidere se puntare su uno stage o su un altro, se provare a giocarti le tue carte lì dov’eri o altrove, nella consapevolezza di doverlo fare perché molto raramente capitava che arrivasse un’offerta da subito retribuita.
Era una cosa normale. La mia generazione, per certi versi, non ha avuto alternative e sapeva che “fare la gavetta” significava lavorare gratis.
Il problema è che la mia generazione vedeva però bloccato, con questo sistema, il processo di crescita professionale che aveva chi ci ha preceduto.
Perché la gavetta dei nostri padri e madri, assimilabile alla nostra, a un certo punto finiva. Non c’era un orizzonte indefinito: si sapeva che avresti lavorato per un po’, gratis, e che al primo giro qualcuno ti avrebbe offerto un contratto che il più delle volte era a tempo indeterminato.
Normalmente, finita la scuola, si arrivava su un posto di lavoro e si aprivano le porte dell’ascensore sociale: cose come comprare un’auto, farti un mutuo, le cose che per noi degli anni ’80 erano simbolo dell’emancipazione, diventavano gestibili nel giro di un anno.
Per noi no. Per noi, avere una laurea, che era il simbolo del riscatto sociale della generazione prima della mia, diventava la costrizione per dover entrare in un circolo che prevedeva prima contratti gratuiti, poi contratti semigratuiti (tipo 300 euro al mese per sei mesi), poi il contratto a progetto che non prevedeva contributi, poi il determinato. Si poteva andare avanti, fra saliscendi continui, per cinque o sei anni. Arrivare a trenta così era una roba normale.
Il problema è che di mezzo c’eri tu che diventavi trentenne, gli affitti che costavano come oggi, e tutti quella specie di modello che ti attendeva e che stava lontano come era lontana l’adolescenza: stavi a metà del guado, e a meno di un colpo di culo non potevi andare ne su, ne giù.
Dei primi anni di lavoro “gratis” (perché io sono fra quelli che gratis hanno lavorato per anni) ricordo due cose.
La prima è il fatto che il lavoro non fosse mai solo “uno”, ma molti. Io ad esempio lavoravo di giorno e di sera, in ufficio per il mio lavoro “da stagista”, e la sera in mezzo ai tavoli. La mattina in un call center, al pomeriggio nel mio ufficio “da apprendista web content editor”. Era un elemento che alcuni miei conoscenti che si potevano permettere di fare lo stage gratis e basta ridicolizzavano pure. Non era “figo”, era anzi una sorta di stigma sociale, per alcuni.
Per dire, ricordo che una sera, mentre servivo una tavolata in un sabato di giugno, un tizio che mi aveva preso in simpatia mi disse “Ma quante ne sa ‘sto cameriere?!” (per le mance cercavo di giocarmela sulla simpatia con i clienti, e con uno fra una portata e l’altra si era cominciato a parlare di cinema) e io gli risposi “Sai, io lavoro in un’agenzia di pubblicità in realtà“, come se quel mio stare in stage fosse una realtà parallela dal mio essere anche cameriere che, volente o nolente, se voleva due soldi in tasca doveva trovarsi un secondo impiego. Io ero un pubblicitario, che stava lì a servire i tavoli perché tutti sapevano che se stavi sotto una certa età, era normale fosse così.
La seconda era che questa scelta, quella di fare il doppiolavorista, quella di fare il percorso di lavorare gratis per mesi, non sempre era compreso. I miei per mesi mi chiesero se ne valesse la pena, per il semplice fatto che non capivano il perché dovessi andare gratis a prestare servizio da qualcuno dopo tutti gli anni di università.
Il gap generazionale era tutto lì, nel concetto che se avevi studiato eri pronto, cosa dovevi ancora imparare? Se non ti pagavano, era perché avevi studiato cose inutili.
Quante volte avete sentito questo refrain? Chi ha quarant’anni come me, probabilmente tante.
Era il leit-motiv di tanti ospiti di talk show di allora, accusare direttamente i corsi di studio.
Quindi eri di fronte a una “non scelta”: decidere di puntare su di te e lavorare gratis provando a inseguire qualcosa che rassomigliasse vagamente a una sorta di realizzazione e resistere agli attacchi a 360° di famiglia e opinione pubblica che ti diceva che avevi torto, oppure mollare, accontentarti, e sentirti dire che avevi perso tempo. Dopo cinque anni di studi (passati anche a fare altri lavori, ovvio)? Anche no.
In tutto questo, c’eri tu in mezzo. E nel mio caso, dire che fossi contento, beh, è una cazzata.
No, non sono stato contento di lavorare per anni gratis.
No, non sono stati anni semplici e no, non sono felice di aver investito il mio tempo libero per anni in lavori diciamo così “umili” e talvolta pagati in nero per avere quei 400/500 euro al mese da parte per le due stupidaggini che mi servivano, dalla benzina alle tre uscite che facevo al mese (perché sì, per anni, grazie a questo sistema, io non ho fatto nulla. Ma nulla veramente, anche perché nel mentre i soldi cominciavano a essere chiesti anche in casa, a titolo di giusta contribuzione).
Non ero contento perché sapevo che mi sarebbe bastato poco per essere felice. Mi sarebbe bastato quel minimo obolo per pagarmi la benzina per andare in ufficio o per non dover chiedere soldi a mia madre se dovevo pagarmi un paio di scarpe (cosa che si è progressivamente rarefatta, fino ad azzerarsi, proprio in quel periodo).
Non ero contento ma lo rifarei, perché in quel momento era l’unica cosa da fare se volevo entrare nel mondo del lavoro nel settore che mi ero scelto. Non c’erano alternative: o facevi così, o niente.
Quindi nel mio caso: ho lavorato gratis? Sì.
Ha significato “fare gavetta”? Certamente: ho lavorato in realtà prestigiose e ho imparato tantissimo.
Sono grato per questo? Sì, sono grato a quelle realtà per cui ho lavorato, perché mi hanno insegnato tanto.
Ne vado orgoglioso? Certo, perché non ho chiesto nulla a nessuno e tutto ciò che ho me lo sono guadagnato sul campo.
Lavorare gratis quindi è giusto?
No. Fine.
Non è mai giusto.
E sottopagati? Idem.
Perché la domanda che segue quelle lì sopra è “Pensavi che fosse la cosa migliore in termini situazionali?” la risposta è “Assolutamente no”.
Eravamo tutti incazzati come bisce di vederci trattati con la scusa del “devi imparare” come manovalanza di bassa qualità. Se parlo oggi con un mio coetaneo e gli ricordo quegli anni, tutti ricordano probabilmente con un pizzico di disillusione quegli anni in cui il sistema era quello: lo abbiamo accettato, ce lo siamo accollato, chi ha potuto l’ha sfangata con strumenti esterni offerti dalla propria rete parentale, chi non poteva s’è mangiato il suo cucchiaio di fatica supplementare.
Con quello spirito un po’ così, un misto di orgoglio e di tristezza oggi guardo il presente, e dico meno male che a un certo punto qualcuno ha deciso che non si poteva prendere stagisti gratis a flusso continuo e ha messo un tetto minimo retributivo: qui in Piemonte se vuoi uno stageur devi pagarlo 600 euro al mese.
Perché il lavoro di una persona non formata è lavoro. Anche quello, sì.
C’è il benefit che impari? Certo. Tante volte, quando ero nella posizione di assumere, ci si interrogava con i colleghi se valesse la pena prendere un profilo da formare, dato che potenzialmente potevi lavorare per fornire manodopera preparata ad altri.
La risposta è: sì. Perché che piaccia oppure no, chi viene da te impara, ma dà anche, e se sei bravo a rinnovare sempre il suo entusiasmo, potenzialmente rimane con te a prescindere dai soldi.
E sì, si possono incontrare delle persone che non hanno voglia di far nulla e che ne approfittano: ma non è certo una caratteristica generazionale diffusa, come si sta cercando di far passare oggi.
Che “i giovani non vogliano fare gavetta” mi sembra una conclusione abbastanza sommaria di un processo che è decisamente più radicale e complicato di così.
Se avessi potuto scegliere, io che ho fatto la “gavetta” con quei crismi lì, accettando di offrire il mio lavoro di fatto regalando il mio tempo e senza mai tirarmi indietro, non l’avrei fatta, e non perché non avessi voglia di lavorare (i fatti sono lì a dimostrarlo). L’avrei voluta fare con quel minimo di contributo dignitoso che mi avrebbe permesso di vivere meglio ciò che imparavo, magari evitarmi situazioni oggettivamente poco umane (c’erano giorni, tipo il venerdì, dove cominciavo a lavorare alle 9 di mattina e finivo alle 3, di notte però: uscivo dall’ufficio alle 18 e mi fiondavo al ristorante, dove continuavo fino a notte fonda) e sentirmi gratificato.
Dire che “fosse giusto”, no. E non era giusto ieri, non è giusto oggi, non sarà giusto domani.
E chi dice “Ai miei tempi”, beh, ti rispondo “Anche ai miei”, ma che oggi uno debba fare quella vita lì, dico no. Non in quella misura, sicuramente.
Questo significa che il lavoratore può disporre del lavoro come preferisce? No.
Sarebbe opportuno ad esempio che in casi di comportamento scorretto, chi offre il lavoro possa disporre di strumenti per porre delle contromisure, anche l’allontanamento coatto: e questo oggi non so quanto si sia abbastanza maturi per averlo, come strumento.
Ma se qualcuno arriva e offre il proprio lavoro con cognizione di causa e senza abusare dei propri diritti, allora tu il minimo per essere dignitosi devi garantirlo, senza mascherarti dietro il “Ai miei tempi si faceva così”.
Perché ai tuoi, ai nostri tempi, non si faceva “bene”: anzi, semmai si faceva male.
E questo è tutto ciò che so a proposito della gavetta gratuita.
Immagine da Pixalbay.
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