Devo essere sincero, non avrei mai scoperto Benny G. se non ne avesse parlato Selvaggia Lucarelli su Twitter.
Questa mattina a @RadioCapital_fm ho intervistato la madre di questa bambina, che a 10 anni canta, twerka, si trucca sui social, seguita da migliaia di follower e gestita appunto da sua madre. “Lei é felice, sono io che carico i video”. Per ascoltare : https://t.co/DJZSKVgp8a pic.twitter.com/VBdrVgNkn0
— Selvaggia Lucarelli (@stanzaselvaggia) January 26, 2021
Incuriosito dalla vicenda, ho anche ascoltato la sua intervista fatta su Radio Capital alla madre della bambina diventata nota nel panorama della musica neomelodica del Sud Italia.
Sono padre di due bambine piccole, e in effetti sono state tante le volte in cui mi sono interrogato su come mi rapporterò ne spiegare loro come si sta sul web e come cercherò di farci relazionare loro: ne ho parlato diffusamente anche in New Personal Storytelling.
Casi di questo genere però li ritengo interessanti a prescindere dalle mie posizioni personali (che tenterò il più possibile di non esprimere qui), dato che ci mostrano non solo come i più piccoli si rapportino alle nuove tecnologie, ma anche come essi costruiscano strutture cognitive che cambiano il percepito della realtà, in tutta la sua totalità.
Piccola storiografia di Benny G.
Benny G., diminutivo – se non ho capito male – di Benedetta è una bambina di 10 anni che ama cantare. La mamma per farle inseguire il suo sogno negli anni scorsi ha cercato e trovato una casa discografica pronta a scritturarla.
La casa discografica le fa incidere negli anni diverse canzoni che si possono ascoltare su YouTube, tutte che muovono un discreto numero di ascolti (se non ho visto male, alcune toccano i milioni di passaggi). La prima che si trova è in combo con un altro piccolo cantante, che confesso di non conoscere. Se la matematica non mi inganna, Benny G. nel momento in cui viene girato questo videoclip ha otto anni.
La clip mostra due bambini che discutono, litigano, si telefonano, sempre in atteggiamenti che sono richiamabili al mondo adulto (anche se, ogni tanto, attorno a Benny G. compaiono giocattoli e bambole che sembrano per il contesto anche fuori luogo). È il risultato più vecchio che ritrovo sul tubo: nel tempo, sono spuntati altri videoclip di Benny G., e in alcuni emerge quel principio di “adultizzazione” cui fa riferimento la Lucarelli nella sua intervista (linko questa, ma i clippini sono diversi).
Prendendo a riferimento il profilo IG della bambina (presente sul social nonostante le policy restringenti in termini d’età del gruppo), si nota come nella bio si citi l’account della mamma, e si rimandi anche a quelli della casa discografica. Un account gestito come quello di una celebrità.
Al di là del giudizio sul caso specifico che non voglio esprimere, mi vorrei soffermare sul rapporto con la visibilità che viene garantita dai social media, e come questa può essere interpretata.
Capire il rapporto con i social
Quello che ho capito ascoltando la mamma di Benny G. durante l’intervista a Selvaggia Lucarelli è che il filtro dei social media si espande oltre il reale. La signora infatti si sofferma sul valore della “felicità inseguita”, senza rendersi conto di cosa stia generando l’ingresso di contenuti come quelli che veicola sul web, per la figlia e per gli altri.
Il fatto che ci si “faccia guardare” è un qualcosa che viene percepito come normale (e in effetti oggi è normale, che la gente ci guardi attraverso il digital), com’è normale che questo non contempli una reale conseguenza se non il raggiungimento dell’obiettivo di realizzare il proprio sogno, “raggiungere la felicità” secondo l’idea della bambina.
Ed ecco il primo aspetto su cui vorrei soffermarmi: siamo in presenza di un fenomeno che è nato sotto la lente non solo del talento (immagino che Benny G. sappia cantare benissimo), ma in rapporto alla visibilità. Al contrario di altri grandi maestri penso anche del neomelodico, come il mai abbastanza citato Nino D’Angelo, o a un maestro come Pino Daniele, Benny G. costruisce il suo stile mentre diventa famosa. La forbice di tempo che la divide fra la costruzione della sua dimensione artistica a quella di celebrità si è sostanzialmente annullata, diventando un passaggio unico.
Questo avviene grazie ai social media, che permettono di accelerare la diffusione dei suoi brani da un lato, dall’altro la obbligano a stereotiparsi ai linguaggi che diventano imperanti su di essi.
Se nella TV di fine ‘900 lo spazio per i bambini che amavano cantare era lo Zecchino D’Oro o, più raramente, qualche comparsata in un varietà di prima serata, con tutta una serie di regole e principi molto ferrei, la liquidità dei social conduce a uniformarsi oltre ogni principio e regola, a seconda del desiderio o meno di accelerare quel processo per “diventare famosi”, qualsiasi cosa si sappia fare.
Le parole della mamma di Benny G. mi hanno colpito perché la signora attribuisce quel limite al media stesso: non dice “Non credo sia adatto che mia figlia twerky“, semmai dice “Ho visto di peggio“, si presume online.
I valori di un eroe
E qui è il secondo focus, strettamente narrativo, su cui vorrei concentrarmi: se ogni talento fosse inserito in una ipotetica struttura in tre atti, è evidente che il percorso che conduce al climax sia in salita e che preveda fatica e sia sfidante. Questo perché ogni archetipo, per trionfare, deve affrontare un cambiamento di equilibrio che, si presume, dovrebbe migliorarne la situazione iniziale.
È un percorso che contempla un carattere di redenzione, per certi versi.
In questo, Benny G. è in tutto e per tutto un Soggetto che, semioticamente parlando, sta rincorrendo l’Oggetto di valore e sta attraversando quella fase in cui il suo equilibrio è cambiato.
Il punto è il giudizio che viene attribuito a questa trasformazione: per alcuni sarà azzardato, per altri sarà un aspetto necessario da considerare in nome del successo.
Quello che però credo (e anche su questo sto preparando un post), è che questo tipo di storie non restituiscono forse uno spaccato efficace per determinare, anche a livello immaginativo, cosa significhi cominciare un percorso trasformativo.
In altri termini: ognuno di noi è protagonista della propria storia, e condividendola sui social inconsapevolmente dà ai propri followers la possibilità di ispirarsi ad essa. La miriade di narrazioni autobiografiche che si trovano oggi online sono modelli che descrivono anche l’indirizzo che la società si da.
È chiaro che in mancanza di regole predefinite e vincolanti che dicano cosa è giusto ed è sbagliato, sanzionando direttamente i produttori di contenuto, l’autodeterminazione sia indispensabile. E in uno scenario dove ognuno di noi può diventare l’Eroe di qualcun’altro, tale autodeterminazione è decisiva.
Il problema è, a mio parere, che stiamo appaltando a delle piattaforme digitali il ruolo di arbitro nel determinare cosa sia giusto o sbagliato. Se viene pubblicato, allora è fondamentalmente corretto, e se viene visto/likato/cliccato, allora è anche apprezzato. Se poi l’autore determina che quel dato contenuto non è lesivo nei confronti di alcun equilibrio, allora non si presentano problemi.
L’amplificazione dei contenuti, poi, genera valutazioni basate sull’hype, non strettamente sulla qualità. Se fa notizia, se è provocante il giusto, se è appariscente: e se è contrario a certi principi, pazienza, perché appunto, la piattaforma lo permette.
Il problema si verifica se questa continua rincorsa all’emersione porta a erodere quelle strutture valoriali portanti che fino ad oggi hanno garantito di non snaturare la sicurezza sociale. Ad esempio, il prerequisito fondamentale della preparazione per ottenere successo in qualsiasi campo. L’idea del lavoro come strada principale per diventare “bravi” in qualcosa. La fondatezza del proprio essere in valori e comportamenti che siano sostanziati da esperienze vere, che rendano la nostra identità frutto di un percorso di crescita solido.
Se si erodono questi prerequisiti, allora si genera nelle persone un’aspettativa pericolosa.
Non sono mai stato del partito “È colpa dei social”. Però comincio seriamente a interrogarmi sul ruolo che i social media hanno assunto nella nostra vita, soprattutto in quella delle menti meno preparate a capire come essi cambino il modo di relazionarsi con gli altri.
Sarebbe utile interrogarsi sempre di più su questo aspetto, che è forse il fulcro centrale delle trasformazioni che più stanno influenzando il nostro mondo, oggi.
D’altronde, casi come quelli di Benny G., nel bene o nel male, cominciano a essere tanti. Non considerarsi come il sintomo di una trasformazione epocale, rischia di portarci in una nuova fase senza accorgene (e quindi, senza capirla fino in fondo).