Quindi, siamo in una situazione inedita.
Un virus pericoloso, la paura del contagio, il timore di una normalità svanita. Non c’è da vergognarsi, ad esser per lo meno intimoriti da tutto ciò.
Mentre lavoro da casa con il team di Bakeca, tutti diligentemente in regime di remote working, rifletto un po su cosa mi lascerà tutto questo.
Perché oltre alle riflessioni sui temi economici, sul futuro del lavoro (c’è chi come Silvia Zanella ne ha parlato molto meglio di come farei io) o del business (ne ha scritto benissimo Alberto Maestri sul suo sito) su tutti gli aspetti più “macro” che sono sotto i nostri occhi, beh, quello che mi sta facendo riflettere sono gli aspetti più micro.
Ad esempio sto osservando come alle persone, talvolta, stia facendo paura il concetto del rallentare. Distanziarsi dalle sensazioni di essere sempre al centro del vortice di attività, impegni, contatti, relazioni.
Vedere il mondo che in qualche modo ci chiede di fermarci con lui e prendere fiato. Attenzione: non parlo delle lecite paure del vedere il proprio lavoro non riuscire a garantire la sussistenza (penso alle Partite IVA, cui va tutta la mia solidarietà): parlo proprio di aspetti più legati al nostro essere persone, alla relazione che abbiamo con gli spazi e con il tempo.
È come se questa costrizione a casa ci stia obbligando a fare i conti con noi stessi, in un modo o nell’altro.
Come se dovessimo, con più tempo a disposizione a nostra discrezione, cominciare a chiederci se ciò per cui ci siamo mossi fino all’altro giorno sia stato qualcosa per cui ne sia valsa veramente la pena.
Tutta questa pausa forzata ci sta obbligando a metterci in discussione.
Torno agli esempi.
Ci sono persone che conosco che non sono cambiate per nulla. Lavorano da casa come prima avrebbero fatto in ufficio, non cambiano apparentemente di una virgola i propri ragionamenti, non sembrano minimamente toccati dal fatto che intorno a loro il mondo stia forse cambiando di nuovo, rivoluzionandosi. Altri sembrano intimoriti dallo stop obbligato e ne soffrono, perché non abituati ad andare piano. Altri ancora reagiscono con comportamenti straordinari e imprevedibili, come i ragazzi che si sono messi a ballare sul balcone la Macarena (saranno stati contenti i loro vicini?).
Se ci sia un modo di reagire giusto o sbagliato, io non lo so. Sono tutti giusti, per definizione.
Io posso dire come la vedo io, mentre sento nell’altra stanza le mie figlie che giocano o mia moglie che, come me, lavora portando avanti per quanto possibile le proprie attività al meglio, e dalla finestra vedo in lontananza il mercato dimezzato, dove le persone possono andare a comprare solo il pane o la verdura.
Beh, sarò impopolare, ma a me questi giorni di reclusione coatta stanno facendo bene. Mi stanno facendo relazionare con il lavoro in una forma sana, ad esempio, permettendomi di osservare con più lucidità come alcuni processi interni siano migliorabili e come invece ci siano dei punti di forza nel nostro team di lavoro o nelle nostre relazioni.
Questo non significa che non mi manchino i colleghi dal vivo, anzi! Però ho come l’impressione che sia più chiaro come procedere, immaginando delle soluzioni efficaci ai nostri problemi.
Allargando il discorso alla sfera più intima, sto riscoprendo il piacere di avere una relazione più morbida con il Tempo, dove gli orari, pur rimanendo sempre contingentanti, si mostrano con meno tassativa regolarità: è come se cominciare a lavorare al mattino da casa alle 9 sia diverso che farlo in ufficio.
Tutto diventa sfumato, anche la necessità di rincorrere appuntamenti e kermesse sociali, facendo apprezzare con più oggettiva serenità la bontà della quiete. Lo sento fisicamente addosso, in cui sono più attento ai segnali che il mio corpo mi lancia e faccio più caso (come penso tutti voi) a ogni stimolo.
È come se avessi una percezione più naturale delle cose. Anche dei rapporti, che si espandono, non ci concentrano in slot in agenda. Non so voi, ma è come se oggi vivessi ogni momento in maniera più intensa. Sento il Tempo che scorre e sembra quasi sia tangibile questo suo passare, posso pormi in maniera più attenta nell’osservarlo.
Tempo fa ho letto un articolo su The Vision che mi ha colpito: s’intitolava “Perché il capitalismo non vuole farci dormire“, e citava come il nostro mondo si stia abituando a non concepire l’idea che ci si possa fermare a riposare. Rileggendolo, mi sono reso conto che sia proprio così: ormai il fermarsi è considerato un problema, anche se è fisiologico e non possiamo farne a meno.
Come siamo arrivati a considerare il fermarsi un problema? Perché oggi anche i momenti nativamente più vicini al concetto di “stop” sono diventati oggetto di accelerazione? Penso alle vacanze o alle cene al ristorante che diventano solo lo spunto per produrre contenuti, o alla necessità di dover vivere in second screen ogni programma che vediamo alla tv, in una corsa continua, non focalizzata, che non rende merito allo stesso momento che stiamo vivendo.
Non è solo colpa dei social, intendiamoci. È come se la trottola abbia preso velocità senza che nessuno capisse perché.
Oggi però siamo fermi, e il Tempo è come se avesse preso di nuovo la scena. Oggi siamo obbligati a fermarci, e possiamo guardarci attorno cercando di capire cosa tutto questo oggi potrebbe lasciarci.
Dato che ho cominciato il post sottolineando che parlo per me, io penso che dietro mi porterò questa voglia di prender il controllo del mio tempo. Smettere ancora di più di inseguire quelli del digitale, in favore di una più analogica naturalità dei cicli.
Preferire la logica a palinsesto di quella on-demand.
Scegliere di lasciare che questa sfumatura che oggi osservo fra i vari momenti della giornata provi a insinuarsi nei miei pensieri e nelle mie azioni, provando a non farmi fagocitare dalla fretta di fare tutto e subito.
Forse questa sarà una cosa bella che potrebbe lasciarci questo periodo così difficile.
Oltre, ovviamente, alla consapevolezza del senso comune, del rispetto per lo Stato e per i propri concittadini, e tutte quelle cose belle che ci farebbero vivere meglio sempre, non solo durante la pandemia.